Percorso formativo ONLINE per le famiglie del Centro prescolare Umbrella in primo anno di trattamento.
Nella locandina tutti i dettagli
Percorso formativo ONLINE per le famiglie del Centro prescolare Umbrella in primo anno di trattamento.
Nella locandina tutti i dettagli
Valutazione intervento e ricerca nell’autismo. Umbrella Behavioural Model: un approccio evidence based multidimensionale. I disturbi dello spettro dell’autismo non sono catalogabili in maniera precisa e schematica, proprio perché legati a una serie innumerevole di fattori, sia genetici, sia biologici, sia ambientali. Il modo migliore per intervenire è studiare in maniera molto approfondita il bambino nella sua quotidianità, in stretta collaborazione con i genitori e le figure che hanno a che fare con il bambino a scuola, per disegnare un intervento che sia completo e il più possibile specifico, fondato scientificamente e orientato al paziente. L’Umbrella Behavioural Model è un modello di intervento multidimensionale, che integra da approcci differenti procedure consolidate dalla ricerca scientifica, inserendo strategie per personalizzare il trattamento e coinvolgere, formare e sostenere i genitori. Vengono fornite check-list per l’osservazione, schede per la rilevazione, la strutturazione degli interventi e la valutazione, scaricabili in formato A4 e a colori dalle Risorse online.
iChiedi ai membri del consiglio di classe di partecipare al nostro corso di formazione online (4 mezze giornate per un totale 16 ore) per aumentare la conoscenza clinica sull’autismo per quei professionisti che non hanno un percorso di studi dedicato ai disturbi dello spettro dell’autismo, ma che tuttavia si trovano tutti i giorni a lavorarci a stretto contatto.
Vogliamo lasciare emergere quali difficoltà i bambini con autismo potrebbero incontrare a scuola, e poi provare delle strategie, verificate e testate in ricerca, che gli insegnanti (e il sistema scolastico nel complesso) potrebbero mettere in atto. Forniamo anche delle schede che lo staff scolastico e il clinico che effettua le osservazioni del bambino a scuola, possono utilizzare per raccogliere dati e strutturare un piano di trattamento personalizzato ai comportamenti emersi in classe.
Il costo è di 95,00 euro, inclusi il manuale “Valutazione, intervento e ricerca nell’autismo UMBRELLA BEHAVIOURAL MODEL” e “Autismo: cosa fare (e non). Guida per insegnanti” di Leonardo Fava e Kristin Strauss, edizioni Erickson.
Per finalizzare l’iscrizione è necessario iscriversi al form qui sotto
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Informazioni e iscrizioni a stage@associazioneumbrella.com
Individuare un trattamento efficace per i disturbi dello spettro dell’autismo non è semplice. Questa è un’opinione diffusa anche fra gli esperti che si occupano di trattamento tutti i giorni.
Non catalogabile come patologia, l’autismo è una condizione estremamente particolare, unica nel suo genere. Legata ad un diverso funzionamento cerebrale, è dovuto ad alterate traiettorie del neurosviluppo le cui potenziali cause sono oggi ancora incerte.
L’autismo è caratterizzato da un’elevata variabilità dei sintomi fra un individuo e un altro, sia in termini di gravità sia di manifestazione.
Tutti questi aspetti impongono a chi si occupa della pianificazione e dell’ implementazione di interventi per l’autismo una grande complessità di azione. Rendere un trattamento efficace vuol dire
Nel nostro modello di trattamento dedicato al bambino con autismo, l’Umbrella Behavioural Model (UBM), descritto all’interno del manuale “Valutazione, intervento e ricerca nell’autismo”, abbiamo cercato di racchiudere questo tipo di visione (il modello è applicato dal 2014 presso i nostri centri).
In ottica multidimensionale e multidisciplinare, il manuale è stato pensato per un pubblico molto ampio: genitori e caregivers, educatori ed insegnanti e altri professionisti del trattamento e della ricerca nell’autismo.
Ci rivolgiamo quindi a dei lettori che abbiano già una buona conoscenza del disturbo dello spettro dell’autismo e dei principi da cui deriva il nostro tipo di trattamento.
Ci rivolgiamo a chi crede che un maggiore coinvolgimento, sia pratico che teorico, di chi si occupa del bambino possa fare la differenza nel trattamento dell’autismo.
L’esperienza ci ha insegnato che le diverse realtà che circondano il bambino con autismo spesso sono piene di dubbi e incertezze. Queste provocano un vero e proprio stallo nel processo di trattamento. Dubbi e incertezze diventano richieste:
Tutte queste condizioni potrebbero essere superate se si riuscissero a creare delle premesse per lavorare insieme.
Tramite il nostro manuale, abbiamo cercato di dare degli strumenti sia teorici che pratici per rispondere ai bisogni del nostro potenziale pubblico e creare le premesse che alimenterebbero un lavoro di collaborazione.
Non crediamo che la nostra proposta sia l’unica possibilità di intervento nel panorama complesso del trattamento del disturbo dello spettro autistico, ma bensì ci auguriamo che questa logica di integrazione, che si basa sulle evidenze scientifiche (evidence-based) e sull’approccio bio-psico-sociale alla disabilità, possa diventare di riferimento per chi si occupa di terapia cognitivo-comportamentale sul territorio nazionale.
Vi abbiamo convinto? Acquistatelo qui. Buona lettura!
Lo scorso 8 gennaio abbiamo incontrato online le famiglie di Umbrella, per parlare di Parent Training e soprattutto dei passi in avanti che sta facendo la Ricerca per migliorarne l’efficacia.
È stato un incontro di 2 ore leggermente diverso dal solito, e per questo motivo siamo particolarmente felici di essere riusciti a coinvolgere un gran numero di famiglie (circa 20)! È stato diverso perché non abbiamo “fatto” il Parent Training, ma lo abbiamo raccontato, spiegando da dove si è partiti e a cosa si sta giungendo grazie agli studi scientifici nell’ambito. Questo perché sappiamo che alle spalle di un Trattamento che funziona, c’è una Ricerca che lo ha validato, e quindi tentiamo sempre di ricordare e trasmettere alle nostre famiglie, e non solo, quanto sia centrale il ruolo della Ricerca nella riuscita di un buon Trattamento e quindi anche di un buon Parent Training.
La prima parte dell’incontro (un’ora circa) l’abbiamo dedicata alla letteratura scientifica, descrivendo, anche grazie al supporto di slides, le evidenze riportate in circa 50 studi di ricerca riguardanti lo Stress Genitoriale, i Problemi Comportamentali ed Emozionali del bambino con autismo, l’Autoefficacia Genitoriale e l’importanza di ognuno di questi aspetti quando si parla di Parent Training. In particolare, pare che questi fattori siano legati fra loro da strette relazioni in grado di influenzarli vicendevolmente e quindi di favorire o sfavorire gli alti livelli di Stress Genitoriale che si trovano ad affrontare quotidianamente buona parte dei genitori con bambini con autismo.
Che la Ricerca e la Clinica stiano sempre di più adottando un approccio person-centered, che miri a rispondere alle necessità del singolo individuo, non è una novità, e da anni si sta cercando di mantenere questo approccio anche sotto indicazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Allo stesso modo, un approccio più centrato sulla persona, potrebbe arricchire i percorsi di Parent Training, impostando interventi sempre più efficaci che rispondano ai bisogni di sottogruppi di genitori, e andando avanti, a quelli del singolo genitore.
Quello che la ricerca dedicata al Parent Training sta cercando di capire è se esistono delle caratteristiche specifiche dei nuclei famigliari o del singolo genitore che possono o meno avere un ruolo nell’equilibrio esistente fra Problemi Comportamentali ed Emozionali del bambino, Stress Genitoriale e Autoefficacia Genitoriale, ed è la domanda che ha guidato anche la nostra ultima ricerca dei cui risultati preliminari abbiamo parlato nella seconda parte dell’incontro online, e ai quali prossimamente dedicheremo un articolo specifico del nostro blog (articolo originale attualmente in revisione per pubblicazione in una rivista internazionale, scritto da Kristin Strauss, Michela Servadio e Leonardo Fava, in collaborazione con l’ospedale pediatrico Bambino Gesù: Association between Child’s Problems Related to Autism Spectrum Disorders and Parenting Stress: The Role of Parenting Self-Efficacy).
Ma il vero valore aggiunto dell’incontro sono state le opinioni e i suggerimenti degli stessi genitori, che rappresentano poi in piccola scala la voce di tutti i genitori con bambini con autismo. Tramite le loro opinioni abbiamo potuto riscontrare concretamente ciò che la Ricerca ci dice, e attraverso i loro suggerimenti potremo affinare in futuro i nostri obiettivi. Riteniamo particolarmente interessanti gli argomenti che sono emersi e per questo motivo vogliamo citarli:
Di questi, e di altri argomenti, tratteranno i nostri prossimi incontri pratici, teorici e formativi di Parent Training. Con l’obiettivo di coinvolgere un numero sempre maggiore di famiglie anche esterne alla nostra associazione, al fine di sensibilizzare sulle importanti ripercussioni che una diagnosi di autismo comporta sulla qualità della vita e il benessere del nucleo famigliare e conseguentemente di formare e capire insieme come migliorare questa condizione.
A partire dagli inizi degli anni ’90, da quando i Disordini dello Spettro dell’Autismo sono entrati ufficialmente nel manuale statistico e diagnostico dei disordini mentali (terza edizione), gli studi dedicati all’individuazione della “cura” per tali disordini del neurosviluppo sono in costante crescita. Tuttavia, ad oggi non è stato ancora possibile trovare un trattamento d’elezione, e tale condizione è un riflesso della grande eterogeneità e variabilità dell’autismo. Infatti, nonostante sia caratterizzato dalla manifestazione di sintomi “core”, comuni a tutti gli individui e condizione necessaria per stabilire una diagnosi, nell’autismo la manifestazione dei sintomi, fra un individuo e l’altro, è completamente diversa, sia in termini di gravità, sia in termini di presentazione. Questa sintomatologia così diversificata è il frutto di processi endogeni altrettanto variabili, non riconducibili ad un singolo processo alternato, ma bensì ad una condizione più complessa e di difficile identificazione.
Ad oggi, secondo quanto emerso da anni di ricerca in questo ambito, si pensa che l’autismo sia una condizione che in buona parte dei casi si instaura a causa di una predisposizione genetica, anche se non si può parlare di una specifica alterazione associabile a questa condizione, bensì sarebbe più opportuno parlare di una moltitudine di geni la cui compromissione potrebbe svolgere un ruolo nell’insorgenza di tali disordini. In aggiunta alla predisposizione del singolo, è poi l’esposizione a determinati fattori esterni (il così detto environment), a far esacerbare tale condizione. Date queste circostanze, è comprensibile come sia profondamente difficile ad oggi trovare un trattamento unico e parlare di cura. Piuttosto, opinione sempre più diffusa è quella di parlare di diversi “autismi”, essendo una condizione ad elevata variabilità di manifestazione, unico per ogni individuo, la cui combinazione della miriade di fattori, sia propri, sia esterni, può indurre tale condizione nell’individuo. Si fa quindi sempre più avanti l’ipotesi che oggi, l’obiettivo sia trovare un trattamento che possa beneficiare specifici sottogruppi di individui con autismo, che presentano un quadro clinico il più possibile in comune o simile. Questa visione, ancora profondamente incerta, ha comunque portato e sta portando tuttora a dei risultati di grande importanza, perché al di là della, necessaria, ricerca di un trattamento farmacologico efficace, la farmacologia ci permette di scovare e capire quali meccanismi sottendono un particolare quadro sintomatologico, potendo così verificare a piccoli passi le cause.
Fatta questa premessa, a partire da due revisioni della letteratura pubblicate recentemente (Henneberry et al., 2021 e Thom et al., 2021), vogliamo riassumervi in questo e nei prossimi articoli, i principali trial clinici che negli ultimi anni sono stati svolti, raggruppandoli per obiettivo primario di trattamento, dove l’obiettivo primario corrisponde ad uno dei sintomi “core”, o comorbidità, riscontrati negli individui con autismo. In questo articolo in particolare, ci soffermiamo sui disordini della sfera sociale, in particolare, vi parleremo dei trial clinici rilevanti svolti negli ultimi anni e riguardanti nello specifico i seguenti potenziali farmaci: ossitocina, vasopressina e memantina.
Ossitocina
L’ossitocina è un ormone di natura proteica, cioè un peptide, che ha proprietà neurotrasmettitoriali, per questo viene anche definito un neuropeptide, cioè una sostanza che è in grado di legarsi alla membrana neuronale e innescare dei processi che mettono in comunicazione i neuroni. Tale ormone, prodotto e rilasciato dai neuroni sovraottici e paraventricolari dell’ipotalamo, è stato visto svolgere un ruolo fondamentale nella formazione dei legami interpersonali e nel comportamento genitoriale, e nel formare legami sociali sia negli umani che negli animali. Negli ultimi anni sono stati realizzati numerosi trial clinici con il fine di testare la sua efficacia sui deficit del comportamento sociale in individui con autismo. Nella tabella sottostante abbiamo riassunto in maniera schematica i risultati dei principali studi svolti su negli ultimi anni su tale ormone. Tuttavia, le evidenze emerse sono abbastanza controverse.
Autori |
Metodi |
Risultati |
Kruppa et al., 2019 |
Somministrazione di ossitocina intranasale una volta al giorno per 2 giorni consecutivi. |
Il gruppo sperimentale ha dimostrato un aumento nell’apprendimento quando esposto a target e feedback sociali. |
Bernaerts et al., 2020 |
Somministrazione intranasale di ossitocina una volta al giorno per 4 settimana consecutive. |
Sia il gruppo sperimentale, che il gruppo di controllo, ricevente placebo, hanno dimostrato un aumento secondo quanto misurato dal questionario Social Responsiveness Scale (SRS), tuttavia non è emersa differenza significativa fra i gruppi. |
Yamasue et al. 2020 |
Somministrazione intranasale di ossitocina una volta al giorno per 6 settimane consecutive. |
Sia il gruppo sperimentale che il gruppo di controllo hanno dimostrato un aumento nella misura della scala “reciprocità” dell’ADOS, tuttavia non è emersa una differenza statisticamente significativa fra i gruppi. |
Sikich et al., 2021 |
Somministrazione intranasale di ossitocina una volta al giorno per 6 mesi. |
Nessuna differenza emersa fra il gruppo di controllo e quello sperimentale nel valore della scala “evitamento sociale” della checklist Abberant Behavior. |
Vasopressina
La vasopressina è un peptide con funzione di ormone, con struttura simile all’ossitocina, con la quale condivide il precursore di sintesi, la neurofisina. La vasopressina, come l’ossitocina, svolge funzioni neurotrasmettitoriali, venendo anch’essa prodotta e rilasciata dai neuroni sovraottici e paraventricolari dell’ipotalamo. La principale funzione svolta dalla vasopressina è nel riassorbimento a livello renale e nell’aumento della resistenza vascolare periferica, tramite la regolazione dell’asse ipofisi-ipotalamo-surrene, da cui deriva il suo nome di “ormone antidiuretico”. Inoltre, tramite il legame con il recettore V1a a livello centrale, la vasopressina esplica una funzione molto diversa; infatti, sembra essere coinvolta nella regolazione del comportamento sociale e aggressivo, in preclinica e clinica; tuttavia, il meccanismo che è alla base di questa funzione svolta, è ancora in fase di studio, poiché scoperta abbastanza di recente. Cosa interessante è che è stato visto che in soggetti con autismo, sono stati identificati delle varianti dei recettori V1a in diversi studi, facendo ipotizzare una compromissione del legame della vasopressina con il recettore corrispondente. Sono presentati qui di seguito i principali risultati di due recenti studi.
Autori |
Metodi |
Risultati |
Bolognani et al., 2019 |
Somministrazione giornaliera di 3 diverse dosi di balovaptan (un antagonista competitivo selettivo del recettore V1a) per 12 settimane. |
Non è emersa differenza significativa fra il gruppo di controllo e i gruppi sperimentali, secondo le misure del questionario SRS-2 |
Parker et al., 2019 |
Somministrazione intranasale di una dose di arginina-vasopressina per 4 settimane. |
È emersa una differenza significativa fra i due gruppi, secondo quanto riportato nel questionario SRS-2 compilato dai caregiver e dal Clinical Global Impression-Improvement valutato dai clinici. |
Antagonista competitivo selettivo: farmaco che legandosi al recettore specifico, impedisce il legame con l’agonista e indirettamente blocca la sua funzionalità.
Memantina
La memantina è un antagonista non competitivo del recettore del glutammato, l’N-metil-D-aspartato (NMDA). Farmaco già approvato per il trattamento dell’Alzheimer. Il potenziale impiego della memantina per il trattamento dei sintomi dell’autismo deriva da evidenze riguardanti un’eccessiva attività glutammatergica a livello cerebrale in soggetti con autismo, essa fungendo da antagonista non competitivo, regola il legame del glutammato con il recettore corrispondente modulandone l’eccessiva attività.
Antagonista non competitivo: farmaco che può legarsi, contemporaneamente all’agonista, al recettore, e la sua presenza riduce o inibisce l’azione dell’agonista.
Autori |
Metodi |
Risultati |
Hardan et al., 2019 |
Somministrazione giornaliera di memantina, testata in 3 studi diversi e in diversi dosaggi: · Primo studio: fino a 50 settimane (per testare sicurezza, efficacia e tolleranza) · Secondo studio: 12 settimane (per testare sicurezza, efficacia e tolleranza in pazienti che hanno già assunto memantina nel primo studio per almeno 12 settimane e stanno avendo una risposta) · Terzo studio: fino a 48 settimane (per testare la sicurezza a lungo termine e la tolleranza della memantina nei pazienti del secondo studio in cui la riduzione di dose ha provocato la perdita di efficacia e nei pazienti che hanno terminato il primo studio). |
· Primo studio: 60 % dei pazienti ha mostrato un incremento nei punteggi dell’SRS entro le 12 settimane di trattamento · Secondo studio: non è emersa nessuna differenza significativa nella percentuale di pazienti che ha perso gli effetti del farmaco, fra i gruppi sperimentali e il controllo. · Terzo studio: è stato concluso prematuramente, non per l’insorgenza di ulteriori effetti collaterali rispetto allo studio 2, ma per non sottoporre ad ulteriore stress i pazienti e le famiglie. |
Karamhmadi et al., 2018 |
La somministrazione per via orale di memantina per 2 volte al giorno per 3 mesi consecutivi è stata valutata in associazione alla terapia ABA. |
Il gruppo che ha ricevuto la memantina ha dimostrato un aumento significativo del valore globale della GARS (The Gillian Autism Rating Scale) e della scala relativa all’interazione sociale. |
Nel complesso gli studi più recenti hanno senza dubbio fatto compiere dei passi in avanti nella conoscenza della psicofarmacologia delle compromissioni sociali che accompagnano l’autismo. Tuttavia, questi risultati non permettono un cambiamento dello standard of care, cioè nell’impiego di quegli interventi che ad oggi hanno dimostrato avere un effetto migliorativo sulla sintomatologia, in primo luogo gli interventi comportamentali intensivi e precoci (EIBI). Se da una parte, volendo valutare i risultati da un punto di vista metodologico, probabilmente studi effettuati su campioni più grandi e utilizzino misure di outcome più adatte che possano evitare l’effetto placebo che invece in alcuni studi è emerso, potrebbero sicuramente migliorare le attuali conoscenze, dall’altra si osservano delle importanti controversie e difficoltà che allontano dal raggiungimento di un’evidente efficacia e che probabilmente non sono solo legate ad aspetti metodologici, ma piuttosto concettuali.
Occorre tenere sempre presente che l’autismo è un disturbo del neurosviluppo che accompagna l’individuo durante tutto il suo corso di vita, e in cui la stessa diagnosi prevede l’osservazione e la misurazione di comportamenti alterati, i quali a loro volta implicano una fisiopatologia che include un ombrello di vettori genetici e molecolari che a volte possono convergere e altre volte no, traducendosi in modelli di comportamento alterato simili, ma comunque derivanti da concause diverse. Un trattamento farmacologico efficace dei sintomi “core” nell’autismo dovrebbe prevedere uno sforzo maggiore nell’identificazione della sottotipizzazione biologica che corrisponde potenzialmente a piccole percentuali di persone con autismo che condividono comuni caratteristiche fisiologiche e che potrebbero beneficiare di un determinato farmaco mirato o di una combinazione di farmaci.
Referenze
Bernaerts, S. et al., (2020). Behavioral effects of multiple-dose oxytocin treatment in autism: A randomized, placebo-controlled trial with long-term follow-up. Molecular Autism, 11(1), 6.
Bolognani, F. et al., (2019). A phase 2 clinical trial of a vasopressin V1a receptor antagonist shows improved adaptive behaviors in men with autism spectrum disorder. Science Translational Medicine, 11(491), 7838.
Farzaneh, B. (2018). Efficacy of memantine as adjunct therapy for autism spectrum disorder in children aged 14 years. Advanced Biomedical Research.7-131.
Hardan, A. Y. et al., (2019). Efficacy and safety of memantine in children with autism spectrum disorder: Results from three phase 2 multicenter studies. Autism, 23(8), 2096–2111.
Henneberry, E. et al. (2021). Decades of Progress in the Psychopharmacology of Autism Spectrum Disorder. Journal of Autism and Developmental Disorders. 51, 4370–4394.
Kruppa, J. A. et al., (2019). Neural modulation of social reinforcement learning by intranasal oxytocin in male adults with high functioning autism spectrum disorder: A randomized trial. Neuropsychopharmacology, 44(4), 749–756.
Parker, K. J. et al., (2019). A randomized placebo-controlled pilot trial shows that intranasal vasopressin improves social deficits in children with autism. Science Translational Medicine, 11(491), 7356.
Sikich, L. et al., (2021). Intranasal Oxytocin in Children and Adolescents with Autism Spectrum Disorder. The New England Journal of Medicine, 385 (16), 1462-1473.
Thom, R. P. et al. (2021). Recent Updates in Psychopharmacology for the Core and Associated Symptoms of Autism Spectrum Disorder. Current Psychiatry Reports. 23:79.
Yamasue, H. et al., (2020). Effect of intranasal oxytocin on the core social symptoms of autism spectrum disorder: A randomized clinical trial. Molecular Psychiatry, 25(8), 1849–1858.
Riflessione sul lavoro svolto da Albert Ellis e dalla terapia cognitivo-comportamentale (da “Albert Ellis and the World of Children” di Bernard M.E.)
Secondo quanto riportato dalle ultime linee guida rilasciate dall’Istituto Superiore di Sanità, la terapia cognitivo-comportamentale può essere utilizzata nel trattamento di determinati disturbi associati all’autismo, quali l’ansia e gli eccessi di rabbia, in bambini o ragazzi con autismo ad alto funzionamento. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT), non si rivolge soltanto al bambino, ma anche ai genitori, o comunque a chi si occupa della crescita del bambino, al fine di istruire loro alla gestione di queste particolari condizioni che vivono i propri figli (SNLG, ISS 2011)
Ma facciamo un passo indietro cercando di capire su cosa si basa la CBT e quale specifica applicazione di tale terapia risultata essere più adatta ai bambini con disturbi del neurosviluppo.
In linea generale, la CBT sostiene che non siano gli eventi a creare e mantenere i problemi psicologici, emotivi e di comportamento, ma piuttosto sarebbero le credenze e i processi cognitivi posseduti dall’individuo stesso (idiosincratici) a filtrare gli eventi, dai quali processi (più o meno alterati), derivano le emozioni e quindi le reazioni (comportamenti) (Beck, 1964). Perciò una visione distorta della realtà sarebbe alla base dei disturbi psicologici, emotivi e comportamentali secondo i principi della CBT, la quale mirando alla razionalità, cerca di scardinare quei processi individuali e a circolo chiuso, che impediscono una visione il più possibile oggettiva della realtà e che tendono al mantenimento. In particolare, secondo i teorici della CBT, esisterebbe una stretta connessione fra credenze-emozioni-comportamento:
Tale tipo di approccio, è intuitivamente difficile da applicare al trattamento vero e proprio dei disturbi dello spettro dell’autismo, tuttavia un tipo di CBT, la terapia comportamentale razionale-emotiva (REBT), è un’applicazione del trattamento cognitivo comportamentale che ha trovato diffusione come trattamento di bambini e ragazzi con disturbi psicologici e del neurosviluppo.
Pioniere della REBT è Albert Ellis, psicologo statunitense, considerato il pioniere della terapia cognitivo-comportamentale, poiché parallelamente allo sviluppo della CBT, lui basandosi sui principi del cognitivismo, intorno alla metà degli anni 50, elaborava la REBT. Ellis sosteneva che attraverso l’REBT si dovesse cercare di insegnare ai bambini, e anche ai relativi caregivers, a gestire le circostanze difficili e le altre persone, gestendo le emozioni che tali condizioni generavano attraverso l’uso delle credenze razionali e del ragionamento.
Secondo Ellis (Bernard, 2004; Ellis, 1994), i bambini nascono con un’innata capacità di pensare in maniera irrazionale, tale abilità dai 6 ai 12 anni subisce un processo di sviluppo che porta al pensiero razionale e al ragionamento, seguendo le fasi di sviluppo suggerite da Piaget. Tuttavia, Ellis sosteneva che quando i bambini o anche gli adulti, le persone in genere, vivono delle situazione particolarmente estreme da un punto di vista emozionale, i loro processi mentali tornano ad un stadio precedente, definito anche lo stadio di sviluppo mentale pre concreto di Piaget, e questo giustificherebbe le reazioni irrazionali quali: fare delle inferenze arbitrarie, considerare le cose più grandi di quelle che sono (catastrofismo), vedere le cose o bianche o nere, e pensare in maniera assolutistica (cioè convertire delle preferenze o dei desideri in condizioni di assoluto bisogno e verità).
Ma andiamo a vedere meglio su quali principi si fonda la REBT applicata ai bambini con disordini comportamentali, emotivi e psicologici, e in che modo essi sono aspetti condivisi dalla CBT (descritti in maniera più estesa in Ellis e Bernard, 2006):
Educazione emotiva razionale
Elemento centrale dello sviluppo della REBT è il riconoscimento che ha assunto nel corso degli anni la sua applicazione non solo quando svolta dai terapisti, ma anche dagli insegnanti a scuola, poiché si è dimostrata in grado di aumentare lo stato di benessere emotivo dei bambini. Fu lo stesso team di ricercatori che lavoravano con Ellis, ad accorgersi di tali vantaggi, quando fra il 71 e il 75, nella piccola scuola che si trovava all’interno dell’Istitute for Advanded Study in Rational Psychotherapy (adesso conosciuta con il nome di Albert Ellis Institute), fu inserito un programma di REBT.
Non a caso, l’Educazione Emotiva Razionale (REE), derivata dalla REBT, è oggi ampliamente diffusa in programmi scolastici per ragazzi e bambini con disturbi psicologici, e si basa sull’insegnare i seguenti aspetti: l’accettazione di sé, i sentimenti, le credenze, i fatti invece delle supposizioni, e mettere in discussione le proprie credenze (Vernon e Bernard, 2006).
Il lavoro con i genitori
Come anticipato, la REBT non è dedicata solo ai bambini e ai ragazzi, ma anche ai genitori, per questo motivo Ellis ne ha sempre avuto conto. Come indicato nel suo testo del 1966 (Ellis, Wolfe e Moseley, 1966), i genitori non dovrebbero biasimare i propri figli degli errori commessi: prima dicendogli che loro hanno agito nella maniera sbagliata, colpevolizzandoli e facendoli sentire sbagliati, per poi punirli. Proprio per reagire a questo tipo di atteggiamento mostrato dal genitore e indipendente dal bambino, Ellis, come molti altri operatoti REBT, ha focalizzato molte delle sue attività anche sui genitori.
La letteratura sulla REBT, si è focalizzata negli anni nella definizione dei diversi profili di atteggiamento adottati dai genitori nel crescere i propri figli, e ha cercato di definire le potenziali conseguenze dell’uno rispetto all’altro:
1. Un atteggiamento autoritario e deciso che si focalizza sul rimprovero del figlio e l’attacco alla sua personalità e modo di essere, rischia di rendere il bambino poco sicuro di sé stesso, e di far considerare sé stesso sempre dalla parte sbagliata e inferiore agli altri. Questo a sua volta potrebbe sfociare in disturbi di ansia, insicurezza e atteggiamenti di sottomissione.
2. Un atteggiamento estremamente gentile e non deciso, che dimostra molto affetto, ma pone poche richieste e pochi limiti, può provocare nel bambino un atteggiamento egocentrico, infantile e dipendente, soprattutto con bassa tolleranza alla frustrazione e sottrazione alle responsabilità.
3. Un atteggiamento autoritario, ma non deciso, tende a criticare molto il proprio bambino per ciò che ha fatto di sbagliato, ma a lodarlo poco quando si comporta bene. Questa disparità può portare a una frustrazione cronica in questi ragazzi, che si trascinano fino all’età adulta, per non riuscire mai ad essere all’altezza delle aspettative dei genitori;
4. Un atteggiamento gentile e deciso è secondo Ellis, il miglior atteggiamento da assumere nel crescere dei figli. Tale atteggiamento permette ai genitori di fissare dei limiti e delle regole, alle quali corrispondono delle punizioni se non rispettate. Ma tali regole non devono essere imposte, ma spiegate e giustificate al bambino. Infatti, al bambino viene spiegato cosa ha fatto di sbagliato, senza colpevolizzarlo o facendolo sentire sbagliato. Puntando all’autodisciplina e alla gratificazione ritardata, senza punire con rabbia, ma lodando e dimostrando amore. Il questo modo il bambino farà spesso esperienze di benessere socio emotivo e cercherà di fare del suo meglio per migliorare.
Inoltre, gli operatori REBT, non dovrebbero soltanto osservare i tipi di atteggiamento impiegati dai genitori nel crescere i propri figli, ma anche ricordare di trasmettere ai genitori dei concetti fondamentali quando si interfacciano con loro e sui quali si possono porre le basi per un effettivo miglioramento (Bernard, 2004):
1. Discutere con i genitori l’importanza di mantenere distinti i confini all’interno della famiglia tra il sistema “esecutivo” dei genitori che lavorano insieme agli operatori da un punto di vista “sociale” per modificare le regole e le aspettative che hanno verso i propri bambini quando diventano più grandi; e il sottosistema “bambini-figli” che offre loro l’opportunità di imparare a negoziare, competere e andare d’accordo tra loro e con i coetanei.
2. Discutere con i genitori i diversi tipi di atteggiamenti nel crescere i propri figli, sottolineando l’importanza di essere gentili e allo stesso tempo decisi.
3. Condividere delle abilità di base per la gestione del bambino (ad esempio, il rinforzo positivo, l’utilizzo delle regole, e le conseguenze).
4. Insegnare ai genitori la struttura ABC delle emozioni, in modo da riuscire a gestire anche le loro proprie emozioni, incluso anche l’autocontrollo.
5. Fornire ai genitori dei suggerimenti sul come possono influenzare i problemi dei loro figli.
6. Discutere con i genitori l’importanza dell’insegnamento delle credenze razionali e la metodologia per farlo, incluso l’accettazione di sé, la tolleranza alla frustrazione e l’accettazione degli altri.
Secondo Ellis, un primo punto da cui partire per lavorare con i genitori è far comprendere loro che prima di voler cambiare i propri figli, devono prima modificare le loro stesse reazioni emotive. Infatti, il programma di psico-educazione REBT, inizia con insegnare ai genitori la responsabilità emozionale, e far capire loro che le loro forti reazioni emotive, sono soprattutto determinate dal loro modo di crescere il bambino e dalle loro credenze riguardo al bambino e che quindi devono partire dal cambiare il loro punto di vista, per poi passare al proprio bambino.
L’eredità di Albert Ellis
Secondo Ellis, per prevenire problemi di salute mentale e per promuovere uno stato di benessere sociale ed emotivo positivo, gli insegnanti e i genitori non dovrebbero solo aiutare i bambini e i ragazzi ad eliminare quanto più possibile le credenze irrazionali e ad utilizzare la strutturazione ABC secondo REBT per accettare la responsabilità emotiva per le loro proprie emozioni e comportamenti, ma loro dovrebbero anche comunicare, modellare e rinforzare nei bambini e nei ragazzi i seguenti credenze:
Insegnare ai bambini a non giudicare mai se stessi in base ai loro comportamenti e a separare i giudizi delle loro azioni dai giudizi legati all’autostima. Incoraggiarli a riconoscere e accettare la responsabilità delle loro peculiarità e dei loro comportamenti-sia i buoni sia i cattivi-senza considerare loro stessi come buoni o cattivi. Aiutare a combattere la tendenza dei bambini verso l’auto abbattimento, ricordando loro che sono forniti di molte buone qualità, e che loro non perdono tali qualità quando commettono qualche sbaglio. Spiegare ai bambini che tutti gli esseri umani sono capaci e abili nel loro unico modo, è infatti importante per i bambini accettare loro stessi incondizionatamente senza doverlo provare a sé stessi.
Insegnare ai bambini che al fine di avere successo, a volte dovranno fare cose che non sono piacevoli e divertenti. Spiegare che la frustrazione e gli ostacoli sono una parte normale della vita e che non è di aiuto per loro pensare che la vita, inclusa la scuola e i compiti per casa, dovrebbero sempre essere divertenti ed eccitanti. Aiutare i bambini a combattere la credenza che non possono sopportare cose che a loro non piacciono e che devono fare cosa vogliono immediatamente. Rinforzarli quando tollerano la frustrazione e il ritardo della gratificazione.
Insegnare ai bambini a non giudicare mai le persone dalle loro azioni e a separare i giudizi delle azioni delle persone, dai giudizi riguardanti la loro autostima. Questo non significa che a loro piace ogni cosa dell’altro. Questo significa che non apprezzare le peculiarità e i comportamenti di un’altra persona senza giudicare la persona nel complesso, è sbagliato. Aiutare i bambini a sviluppare l’attitudine a preferire le persone che si comportato in maniera gentile e rispettosa, ma allo stesso tempo a non pretendere che le persone debbano agire in tale modo ogni minuto del giorno. Spiegare loro che le persone commettono degli sbagli.
Riferimenti bibliografici
Bernard, M. E. (2008). Albert Ellis and the World of Children. Presented at 43rd Annual Conference of the Australian Psychological Society, Hobart, Tasmania, September, 2008;
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Per introdurre i lettori alla visione “circostanziale” o alla “Circumstances View”, Patrick Friman inizia raccontandoci un aneddoto storico. Agli inizi del 20° Secolo, un prete americano, Padre Edward J. Flanagan, comprò una casa con l’idea di accogliere un piccolo numero di orfani della propria cittadina. Questi ragazzi erano abituati a vivere in strada e non possedevano educazione e formazione elevate, conseguentemente, venivano considerati degli incivili, maleducati, oltre che potenzialmente pericolosi. Per questo motivo, la scelta fatta da Padre Flanagan, fu considerata all’epoca una sorta di “esperimento”.
Tuttavia, lui aveva un altro punto di vista sulla questione, e ne era convinto. A tale riguardo Friman riporta, una delle sue frasi più celebri, che abbiamo tradotta in maniera letterale: “Non esistono ragazzi cattivi, ma bensì ambienti, modelli ed insegnamenti non buoni” (Oursler & Oursler, 1949). Infatti secondo Padre Flanagan, questi ragazzi non erano difficili, ma piuttosto ragazzi sfortunati, che avevano affrontato nel corso della loro vita numerosi eventi negativi che li avevano portati ad assumere un comportamento errato. Quello che fece Padre Flanagan fu di cercare di dare a questi ragazzi quello che non avevano mai ricevuto, quindi cercò di modificare le circostanze in cui vivevano al fine di modificare anche il loro comportamento. Tale approccio portò a numerosi cambiamenti positivi in questi ragazzi, tanto che a partire dal 20° Secolo, quello di Padre Flanagan è ancora oggi fra i più conosciuti e impiegati metodi per risolvere le problematiche all’interno delle case famiglia per bambini e ragazzi adolescenti.
Il punto di vista di Padre Flanagan riflette un tipo di visione delle problematiche comportamentali che verrà definita lungo tutto il testo come la “Circumstances View”, o visione “circostanziale”, la quale presenta una linea di pensiero paragonabile a quella degli analisti comportamentali, o meglio ancora incarna l’ideale e la filosofia che si trova dietro il comportamentismo puro, cioè il comportamento nasce in funzione delle circostanze che contornano l’individuo. Questa visione che caratterizza gli analisti comportamentali, è la stessa che li allontana maggiormente dalla visione degli altri professionisti in ambito psicologico: sappiamo infatti che la principale differenza esistente fra l’approccio utilizzato dagli analisti comportamentali e quelli utilizzati da altri professionisti, sta nel fatto che i secondi si focalizzano principalmente sull’individuo, andando a ricercare le cause delle azioni o del malessere nell’individuo stesso, che siano fattori biologici o meno; mentre gli analisti comportamentali si concentrano più sulle circostanze che determinano un comportamento (Hineline, 1992).
Andando oltre i principi e la filosofia dei diversi ambiti della psicologia, possiamo ritrovare l’applicazione o la non applicazione dell’approccio circostanziale nella vita di tutti i giorni, partendo dalle nostre più piccole azioni quotidiane, fino ad arrivare alle scelte geopolitiche di cui sentiamo parlare tutti i giorni al telegiornale. Facendo caso a questi piccoli eventi che popolano la nostra vita di tutti i giorni, ci accorgeremo che spesso tendiamo a dare la colpa agli altri dei loro errori, ma allo stesso tempo a “giustificare” i nostri errori poggiandoci sulle circostanze. Questo punto di vista opposto a quello circostanziale è conosciuto come “the fundamental attribution of error”, secondo il quale gli errori degli altri sono il frutto dei loro difetti legati ad esempio alla loro personalità, oppure alla loro psiche, oppure ancora alla loro educazione.
Diretta conseguenza della visione “colpevolizzante” è la “punizione”, punire l’altro perché causa di un determinato evento o azione, infatti la punizione è parte della logica della colpa, secondo la quale devi “pagare” per l’errore commesso. Servirebbe invece un approccio che sia grado non solo di evitare il dilagare di azione ingiuste, ma che riesca anche a ridurre al minimo la visione “colpevolizzante”, che nel suo piccolo può anche identificarsi nel linguaggio utilizzato, come ad esempio insultare o deridere gli altri. In questo contesto, scrive Friman, la visione “circostanziale” è un chiaro esempio di punto di vista alternativo, cioè un punto di vista meno colpevolizzante e più compassionevole dell’essere umano.
Ricollegandosi all’analisi del comportamento, Friman scrive che il fine ultimo dell’analisi comportamentale è quello di capire quali circostanze funzionali siano dietro un determinato comportamento problema e quindi conoscere la fonte di tali circostanze che lo hanno influenzato. Questo è il reale punto di forza della visione circostanziale, non solo evitare che certi comportamenti vengano assunti, ma estirpare la ragione che li hanno indotti.
Non a caso Skinner, il padre dell’analisi comportamentale, ed altri scienziati del comportamentismo, hanno cercato numerose volte tramite i loro libri di diffondere questo tipo di visione (per citare i più importanti: Walden II del 1948, Science and Human behavior del 1953; Beyond Freedom and Dignity del 1971 e A lecture on Having a poem del 1972 di Skinner, e Coercion and its fallout di Murray S. del 1989), la quale andando oltre la metodologica scientifica e l’approccio sperimentale, rappresenta i principi e gli ideali cui si ispira l’analisi del comportamento, che tutti gli analisti comportamenti dovrebbero abbracciare e ricordare sempre.
Quindi, partendo dall’essenza stessa della “Circumstances View” applicata ai comportamenti problema, essa permette di non dare la colpa alla persona che manifesta il comportamento, ma bensì di intervenire sul comportamento stesso andando a modificare le circostanze che lo hanno determinato.
Un esempio calzante per spiegare questo tipo di approccio è immaginare di stare in macchina percorrendo una strada con un’unica corsia e di essere ad un semaforo, davanti a noi c’è solo una macchina ferma ad un incrocio con il semaforo rosso, allo scattare del verde la donna che è al voltante della macchina davanti si gira e sembra cercare qualcosa sul sedile posteriore dell’auto e ripete la stessa azione diverse volte, tanto da fare scattare più volte il rosso non permettendoci di continuare il percorso. Dopo l’ennesimo scattare del semaforo rosso, decidiamo di scendere dall’auto e andare con aria infastidita a chiedere spiegazioni alla donna. Bussando al finestrino in maniera molto insistente, la donna si gira e la troviamo in lacrime molto preoccupata, ci comunica che il figlio sta molto male e non sa a chi chiedere aiuto. A quel punto il nostro punto di vista sicuramente cambierà e diventerà compassionevole per la donna. Secondo la visione “circostanziale” c’è sempre “un bambino nel sedile posteriore della macchina”, che parafrasando vuol dire che ci sono sempre delle circostanze che sono funzionalmente associate al comportamento oggetto di studio.
Nonostante tale approccio o visione, sia particolarmente efficace e di rilievo nei confronti di un ampio numero di problemi comportamentali, l’assunzione di questo punto di vista, rispetto a quello “colpevolizzante”, è notevolmente inferiore, e le ragioni possono essere molte. L’autore ci mostra in più dettaglio quali sono queste ragioni e perché determinano una ridotta diffusione di tale approccio.
Generalmente, i principali ostacoli alla divulgazione della “Circumstances View” provengono da specifici aspetti dello stesso approccio, come anche da degli atteggiamenti mostrati dagli stessi analisti comportamentali. Qui di seguito sono riportati sommariamente.
Sicuramente un aspetto che rende ridotta la diffusione di questa visione è la sua storia relativamente recente, anche se agli inizi del ventesimo secolo si è per la prima volta sentito parlare di essa, non può di certo competere con la visione “colpevolizzante”, molto più diffusa e permeata nella società. Senza dimenticare che l’applicazione della visione “circostanziale” implica una serie di passaggi obbligati che rendono sicuramente molto più difficile il suo utilizzo, infatti riflettere su quali possano essere state le circostanze che hanno portato ad un determinato comportamento, è più complesso e dispendioso in termini di tempo, rispetto al dare la colpa a qualcuno. Infatti “colpevolizzare” qualcun altro permette una risoluzione “apparente” delle problematiche e indubbiamente più veloce ed economica.
Dall’altra parte gli stessi analisti comportamentali, i quali dovrebbero essere i principali “propagatori” di tale visione, sono gli stessi che la ostacolano maggiormente e per diversi motivi: ad esempio a volte essi tendono dare la colpa ai genitori o ai ceregiver di un trattamento non di successo a causa della loro poca aderenza alle procedure necessarie, piuttosto che valutare le ragioni che sono dietro la ridotta “compliance”. Oppure ancora a volte gli analisti comportamentali tendono a colpevolizzare chi ha una visione diversa dalla loro anche se lavorano in un campo molto simile. Come il caso del Positive Behavior Support (PBS), il quale ha molte somiglianze con l’analisi del comportamento applicata. Tuttavia, molti puristi dell’analisi del comportamento, compreso Skinner, hanno criticato chi seguiva il PBS di avere “copiato” i principi dell’analisi del comportamento applicata, di fatto allontanandoli, favorendo da una parte una “guerra” sul piano intellettuale e meramente teorico, e inibendo dall’altra la potenziale diffusione della visione “circostanziale”, sia in termini numerici, sia in termini di diversificazione nel campo. In ultimo quello che rema contro la circolazione della visione circostanziale sono il linguaggio tecnico-scientifico e la ricerca, aspetti fondamentali che caratterizzano l’analisi del comportamento senza i quali tale scienza non esisterebbe, ma che allo stesso tempo la rendono facilmente attaccabile agli occhi di chi non ha la stessa familiarità con l’approccio scientifico, oppure ancora di chi ha una visione diversa. Purtroppo a volte, gli analisti comportamentali anziché giudicare in maniera “circostanziale” tali critiche, cercando di rendere più appetibile la loro scienza e i loro studi, mantengono un certo rigore di linguaggio e di metodologia che ostacola la diffusione della “Circumstances View”.
Descritti i principali ostacoli, cosa si potrebbe fare per facilitare la divulgazione della “Circumstances View” secondo Friman?
Anche se apparentemente un consiglio banale, in realtà è forse quello più difficile da seguire, perché esso richiede un reale abbandono della visione critica dei comportamenti problema: mantenere un’estrema convinzione che siano le circostanze ad avere determinato un comportamento e allo stesso tempo un certo distacco emotivo che normalmente farebbe indurre a determinate reazione evocate da un comportamento problematico. Conseguentemente, deve essere chiaro che per agire su quel comportamento occorre modificare l’ambiente piuttosto che la persona. Un esempio calzante in questo caso ce lo da il marketing, infatti il suo obiettivo è quello di rendere uno stimolo appetibile agli occhi del consumatore per modificare il suo comportamento e indurlo all’acquisto del prodotto, quindi quello che fa il marketing è modificare eventualmente il prodotto, se esso non piace al consumatore, di certo non il contrario. Lo stesso fanno gli analisti comportamentali quando si confrontato con un comportamento problematico, usano uno stimolo adatto ed eventualmente lo modificano per modificare il comportamento del paziente. Vedendolo da un altro punto di vista, lo stesso marketing potrebbe a sua volta prendere spunto dagli analisti comportamentali e abbracciare la “Circumstances View”, che segue indubbiamente dei principi più nobili rispetto ad un certo tipo di marketing.
Un altro suggerimento è quello di utilizzare un linguaggio più comprensibile, soprattutto quando un analista comportamentale deve confrontarsi con persone che non sono del campo. Un metodo potrebbe essere quello di utilizzare meno linguaggio tecnico e più esempi e casi concreti, che possano raccontare meglio i principi dell’analisi del comportamento e l’applicazione di certe procedure. Non a caso, la diffusione dell’Early Intensive Behavioral Treatment (EIBI) è indubbiamente legata a testi come Let Me Hear Your Voice: A Family’s Triumph over Autism di Maurice, pubblicato nel 1993, piuttosto che agli iniziali studi fatti da Lovaas nel 1987, questo perché il primo raccontava una storia molto più accattivante rispetto al linguaggio tecnico scientifico che i libri e gli studi di Lovaas utilizzavano.
Aumentare il campione coinvolto in studi sulla metodologia dell’analisi del comportamento, permetterebbe anche un aumento della diffusione della “Circumstances view”. Lo svolgimento di studi con un campione relativamente ridotto è e sarà sicuramente utile per affinare la metodologia impiegata dagli analisti comportamentali, ma non avvicina un pubblico più ampio a questa scienza. Anzi, questa condizione favorisce l’introduzione di metodologie proprie dell’analisi del comportamento all’interno di altre branche della psicologia, e una conseguente attribuzione indebita di alcune procedure ad esse (come in parte è stato per la psicologia cognitiva). Dall’altra parte gli analisti comportamentali senza un grande pubblico che li segue, sia nell’ambito della ricerca, sia nell’ambito dell’attività clinica, non possono facilmente rivendicare la “paternità” di alcune procedure.
Un altro aspetto che caratterizza la ricerca e l’attività clinica degli analisti comportamentali, è quello di occuparsi di problematiche abbastanza circoscritte che raramente coinvolgono buona parte della popolazione. Questo interesse ristretto, non attira sicuramente la curiosità del grande pubblico. Tuttavia, un modo per controbilanciare questo atteggiamento, è quello di svolgere studi e ricerche su una popolazione più ampia, ad esempio su un campione di soggetti a sviluppo neurotipico con problematiche ampiamente conosciute e comuni. Questo è quello che ha fatto lo stesso autore del presente articolo per almeno due volte, occupandosi dei fenomeni del “thumb sucking”, cioè ciucciare il pollice, e del “bedtime resistance”, cioè la resistenza di alcuni bambini ad andare a letto la sera. Entrambi gli studi sono stati un grande successo che hanno permesso la pubblicazione degli articoli in riviste mediche, quali Pediatrics e American Medical Association’s journal, nonostante la pubblicazione su JABA (journal od Applied Behavioral Analysis) fosse senza dubbio un importante obiettivo perché il giornale di più alto spessore nel campo dell’analisi comportamentale, la pubblicazione in giornali con un seguito più ampio ha permesso una maggiore divulgazione del metodo impiegato e quindi maggiori occasioni per parlare della visione “circostanziale”.
In ultimo, ma primo per importanza, un modo per contribuire alla causa è far sì che gli analisti comportamentali cerchino di trovare maggiori punti in comune fra loro e facendo leva su di essi per favorire l’unità. Esistono almeno tre punti in comune su cui si può fondare l’unità.
Al di là delle divergenze teoriche e pratiche, tutti gli analisti comportamentali basano le loro ricerche sull’analisi dei dati, impiegando un approccio scientifico e oggettivo, che ne garantisce un certo rigore e attendibilità. Inoltre, l’intenzione comune di tutti gli analisti comportamenti è quella di educare, che siano nelle vesti di educatori stessi, o di ricercatori o di clinici. Infine, ultimo aspetto che unisce tutti gli analisti comportamentali è quello di contribuire alla diffusione della “Circumstances View” e questo è il principale punto di forza che dovrebbe fornire la spinta unificatrice, contrastando la visione “colpevolizzante” che purtroppo è parte integrante della nostra società.
Referenze
Hineline, P. N. (1992). A self-interpretive behavior analysis. American Psychologist, 47, 1274–1286. https://doi.org/10.1037/0003-066X.47.11.1274.
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I deficit nelle abilità di imitazione sono una caratteristica quasi sempre osservata nei bambini con autismo. Tuttavia, tali deficit non hanno sempre lo stesso grado di compromissione e non si manifestano sempre nello stesso modo. Infatti, alterazioni nelle abilità imitative potrebbero riscontrarsi nei movimenti del corpo simbolico e non simbolico, nelle vocalizzazioni, nelle espressioni facciali, oppure ancora nell’utilizzo simbolico o non simbolico degli oggetti. Considerando il ruolo centrale svolto da tale abilità nell’apprendimento e nello sviluppo, diversi studi hanno ipotizzato e confermato il coinvolgimento dell’imitazione nei processi di apprendimento e nello sviluppo di specifiche abilità nella vita del bambino. Quindi, quando compromessa causerebbe alterazioni negli ambiti in cui è coinvolta.
Partendo da queste osservazioni, il presente articolo, scritto da Ingersoll Brooke, ha cercato di affrontare da diversi punti di vista, le problematiche relative alle abilità di imitazione trovate nei bambini con autismo. In particolare, l’articolo ha diversi scopi: prima di tutto si occupa di descrivere la funzione “sociale” svolta dall’imitazione, e il suo ruolo nello sviluppo delle abilità di comunicazione sociale; approfondendo l’associazione fra i deficit di imitazione e le compromissioni della comunicazione sociale. Successivamente, descrive due metodi utilizzati negli interventi EIBI (Early Intensive Behavioral Intervention) per l’insegnamento delle abilità di imitazione, mettendo a confronto un metodo che si realizza in ambiente strutturato e uno che impiega un approccio più naturalistico.
Il ruolo dell’imitazione nello sviluppo del bambino e sue implicazioni nell’autismo
Nei bambini a sviluppo tipico, l’imitazione è un comportamento che emerge sin dai primi anni di vita ed ha due principali funzioni nello sviluppo: una funzione di apprendimento e una sociale. In particolare, tramite l’imitazione, i bambini apprendono nuove abilità, le quali a loro volta gli permettono, in futuro, di essere coinvolti in scambi sociali ed emozionali più complessi.
In questo articolo si approfondisce il ruolo dell’imitazione nello sviluppo delle abilità sociale e di comunicazione, focalizzandosi prima di tutto sulle principali evidenze che sostengono questa ipotesi.
Nelle primissime fasi dello sviluppo le interazione faccia a faccia che avvengono fra il bambino e il caregiver, che può essere il genitore o chi si occupa di lui in questa prima fase della vita, sono caratterizzate da un reciproco scambio di imitazioni delle espressioni facciali e delle vocalizzazioni, e sembra che questo processo sia fondamentale per diverse abilità relative alla comunicazione sociale del bambino, alla comunicazione dell’interesse sociale per una data persona, alle modalità per condividere le sensazioni, e al modo per controllare gli scambi comunicativi che avvengono durante le conversazioni. Intorno alla fine del primo anno di vita, l’imitazione inizia a svolgere un ruolo importante nel gioco con oggetti o giocattoli, mediato dagli adulti, dove il bambino imita come l’adulto gioca con essi; inoltre diventa il principale strumento con cui si accresce e si alimenta il legame fra madre e figlio e sempre tramite l’imitazione svolta durante i giochi, il bambino impara i primi gesti affettivi intorno ai due anni di vita.
Successivamente, quando il bambino inizia ad interagire con i pari, l’imitazione continua a svolgere un ruolo fondamentale, considerando che l’imitazione della manipolazione dello stesso oggetto o gioco corrisponde spesso al primo passo per iniziare un’interazione fra bambini. Inoltre, il mantenimento della reciproca imitazione è alla base dell’interazione sociale e della comunicazione preverbale fra i pari durante l’infanzia e nell’acquisizione di abilità più complesse. Tutte queste evidenze scientifiche hanno fatto ipotizzare che le compromissioni del comportamento imitativo, presenti sin dai primi anni di vita, possono ostacolare lo sviluppo di tutte quelle abilità, in particolare sociali e comunicative, che si manifestano durante la crescita, e di cui effettivamente gli individui con autismo risultano deficitari nella maggior parte dei casi.
A supportare questa ipotesi, ci sono anche diverse evidenze emerse dalla letteratura, che hanno riscontrato in bambini con autismo, associazioni fra deficit nell’imitazione e compromissioni di altre abilità di comunicazione sociale, in particolare il linguaggio, il gioco e l’attenzione congiunta. Considerando che l’imitazione è coinvolta sia nell’apprendimento che nello sviluppo delle abilità sociali, se compromessa è molto probabile possa provocare effetti molto profondi sia sull’apprendimento che sullo sviluppo.
Metodo di apprendimento in ambiente strutturato
Uno dei metodi di insegnamento delle abilità imitative utilizzato nella pratica clinica per quanto riguarda la terapia cognitivo-comportamentale è il discrete trial training (DTT) o insegnamento per prove discrete. Esso consiste in una serie di sessioni di apprendimento in ambiente strutturato, durante le quali il bambino e il terapista svolgono specifiche attività che mirano a fare apprendere alcune abilità al bambino, incluse le abilità di imitazione. Durante queste sessioni, il terapista guida il bambino a replicare le azioni da lui svolte, fornendo al bambino dei prompt che il terapista andrà man mano a sfumare, e l’utilizzo di rinforzi contingenti. Sebbene questo metodo sia risultato essere efficace in numerosi studi, presenta dei limiti principalmente legati all’ambiente strutturato che viene impiegato, il quale potrebbe compromettere la messa in atto spontanea di tale abilità, e la generalizzazione in ambiente naturale, ambiente che coinvolge i familiari e i pari. In tal modo c’è il rischio di limitare l’apprendimento di questa abilità in contesti naturali, quelli in cui la funzione sociale dell’imitazione trova la sua massima applicazione ed efficacia per lo sviluppo di abilità sociali e comunicative più complesse.
Metodo di apprendimento in ambiente naturalistico
Un metodo che sembra superare i limiti imposti dal DTT è il Reciprocal imitation training (RIT), il quale è un tipo di apprendimento svolto in ambiente naturale con il fine di sviluppare l’utilizzo sociale dell’imitazione in sessioni di gioco. Durante il RIT si cerca di stimolare il bambino a compiere delle imitazioni in maniera spontanea lavorando particolarmente sull’imitazione contingente, cioè il terapista inizia ad imitare quello che il bambino fa con gli oggetti o con i giochi, attraverso dei movimenti corporei o delle vocalizzazioni, coinvolgendo un set di oggetti e giochi adatti al livello di sviluppo del bambino. Una volta che il bambino prende coscienza dell’imitazione contingente del terapista, al bambino viene insegnato ad imitare il terapista e tale processo ha molteplici scopi, in primo luogo fa capire al bambino che l’imitazione non è solo utile per l’apprendimento, ma anche per l’interazione sociale, e conseguentemente il bambino sviluppa una motivazione intrinseca a farlo. Successivamente, il terapista inizia a compiere delle azioni che coinvolgono l’oggetto o il gioco in questione, che sono familiari al bambino, cioè azioni che lui compie normalmente, le quali per facilitare il processo inizialmente potrebbero anche coinvolgere delle azioni che riguardano i suoi interessi speciali o le sue stereotipie (ad esempio fa ruotare le ruote di una macchina per farla camminare, oppure impilare i lego per fare delle torri). A questo punto, il terapista potrà iniziare ad introdurre nuove azioni con gli stessi giocattoli che non appartengono al repertorio del bambino e che sono funzionali rispetto a quel determinato oggetto o giocattolo (come ad esempio vestire un bambolotto, inserire dei personaggi all’interno di una macchinina, oppure ancora far finta di mangiare del cibo). Inoltre, in questo contesto si utilizzano generalmente dei rinforzi sociali, i quali funzionano anche fuori dall’ambiente di apprendimento, anche nell’ambiente naturale, favorendo ulteriormente la generalizzazione delle abilità imitative apprese. Aspetto molto importante che si cerca di evitare durante le sessioni di RIT, sono i comandi, questo per evitare che il bambino imiti in risposta ad un comando, piuttosto che ad una motivazione intrinseca, quindi il terapista eviterà di dire “Fai così”, preferendo invece una descrizione verbale dell’azione che sta compiendo con il giocattolo, oppure emette dei suoni relativi a quell’azione, ad esempio “wish, wish…”, se sta facendo nuotare dei pesciolini. Infine, con lo scopo di generalizzare il più possibile le abilità di imitazione, il bambino verrà rinforzato qualsiasi risposta imitativa faccia, senza soffermarsi troppo sulla perfezione delle azioni, se invece l’imitazione non inizia al terzo tentativo del terapista, in quel caso il terapista darà una guida fisica al bambino.
Commento finale all’articolo
Nel complesso, in questo studio Ingersoll, ricercatrice che ha svolto numerosi studi sulle abilità di imitazione, soprattutto nella loro applicazione nella comunicazione e comportamento sociale, ha descritto un metodo innovativo per il periodo in cui è stato pubblicato l’articolo, ma che con il passare del tempo è stato integrato in molti percorsi di terapia, diventato un metodo molto impiegato. Come indicato alla fine del testo, le evidenze di quel periodo non permettevano di identificare quale dei due approcci fosse più adatto per insegnare l’imitazione come precursore delle abilità sociali e di comuinicazione, e studi successivi avrebbero potuto spiegare meglio questo aspetto.
Tuttavia, la ricerca ci insegna che il trattamento dei disturbi dello spettro dell’autismo non presenta dei metodi univoci e di elezione, bensì il percorso di trattamento è disegnato in base alla valutazione del bambino e alle sue necessità. Quindi, in base alle aree di intervento selezionate, in cui il bambino risulta “carente”, verranno definiti specifici obiettivi che la terapia dovrà raggiungere, a breve o lungo termine. L’imitazione nello specifico è una fase comune a molti processi di apprendimento in ambiente strutturato e viene insegnata per mantenere attiva l’attenzione del bambino, quindi il terapista attirerà l’attenzione del bambino chiedendogli di ripetere delle azioni che il bambino sa fare, ma dietro questa abilità il bambino ha appreso ad imitare, se l’imitazione non faceva già parte del suo repertorio di abilità. In conclusione, come spesso accade quando si mettono a confronto l’insegnamento in ambiente strutturato, rispetto all’ambiente naturale, di qualsiasi abilità, non esiste un metodo migliore in assoluto, ma bensì esistono degli accorgimenti che si adattano meglio a quel bambino e ai suoi reali bisogni, anche in funzione del suo livello di funzionamento.